Sono tornato dalla missione in Ungheria di domenica scorsa con i colleghi parlamentari portandomi dentro un’emozione forte e una convinzione profonda.
L’emozione sta nell’incontrare i volti e la verità delle persone. Dalla cittadina di Hegyeshalom siamo andati al confine con l’Austria: la polizia austriaca ci ha fatto dialogare con decine di profughi, abbiamo ascoltato le loro storie, quella del giovane insegnante che si è visto uccidere a fucilate tre fratelli in Siria ed ora viaggia verso l’Olanda, quella del ragazzo pieno di tensione e rabbia per essere stato costretto a lasciare la sua terra. Tanta umanità, dolente ma tenace, che si porta dietro – di un’esistenza intera – semplicemente una valigia e ora vuole solo una cosa: vivere. I bambini correvano: sorridenti, pieni di speranza, dentro l’avventura di un lungo viaggio, in braccio ai loro genitori. Lo sappiamo, c’è un passaggio continuo di persone, giorno e notte. C’è la preoccupazione dell’inverno. Ma negli occhi che ho incrociato ho visto la speranza, il senso che il peggio è passato, che in fondo l’Europa può essere luogo di pace e una terra di possibilità per provare a trovare – come dice il Papa – almeno un po’ di felicità. Salutandoci, tutti, ci dicevano «Thank You, Thank You».
Avevo dentro – forte – questa emozione quando siamo arrivati a Beremend, al confine tra Ungheria e Croazia. Qui abbiamo visto il muro di Orban, il filo spinato, i cingolati, i carri armati, i militari, le armi. I profughi venivano accompagnati a dei pullman, poi su dei treni: l’Ungheria non accoglie, consente solo un “corridoio”, perché donne, uomini e bambini possano procedere velocemente verso la Germania, verso il Nord. Diciamoci la verità: più che il senso del campo di concentramento ho avuto la percezione di un’esibizione muscolare, di un tentativo di affermare il principio della non-accoglienza, il “non li vogliamo”. Le armi servono per affermare lo scaricabarile, il rifiuto di affrontare i problemi, l’ossessione di parlare alla pancia e non al cuore e al cervello dell’opinione pubblica. Torno, quindi, ancor più convinto che la politica nazionale (e i media raccontano solo la politica nazionale) non sia in grado di affrontare le sfide del nostro tempo: la politica nazionale – in un cortocircuito vizioso – tenderà a rifugiarsi nel populismo, nella paura. La globalizzazione – e questi esodi biblici – ci presentano invece l’urgenza di un nuovo ordine mondiale, ci mostrano processi inediti e dalle dimensioni enormi, che possiamo decidere se subire o governare. Ma sono eventi impossibili da governare per gli stati nazionali. È necessaria una nuova Europa, sono necessari gli Stati Uniti d’Europa.